dal blog savinopaciolla.it del 26 Novembre 2020
di Giuliana Ruggieri
Tutti noi, pensando al 1968, certamente ci ricordiamo delle “rivolte studentesche”, ma non dell’influenza di Hong Kong.
Una pandemia che fece due milioni di morti (circa 20.000 in Italia, centomila in America). Le immagini riportate dai giornali del tempo sono davvero drammatiche. Oggi una pandemia come quella del Covid ha completamente paralizzato la vita e la società, traformandosi in uno “tsumani planetario” .
Oliver Rey, filosofo e matematico francese, ne L’idolatria della “vita”, tradotto grazie al Centro Culturale di Milano (in Italia ed. Società Editrice Fiorentina), inizia il suo saggio ponendosi la domanda di come spiegare un simile cambiamento di scala: dipende dalle caratteristiche del virus (nuovo, più letale, più contagioso) o le cause vanno ricercate altrove? Cosa quindi è profondamente cambiato in questi anni?
Oliver Rey nel suo saggio identifica il punto più acuto di questo cambiamento: l’uomo ha spezzato il legame con la Trascendenza e, come sempre, se abbandona il sacro, si rivolge all’idolo. L’uomo ha posto la sua speranza esistenziale e storica, la sua incondizionata devozione, “alla stessa vita”. L’idiolatria della “vita” appunto.
La vita stessa ha preso il posto del sacro, è venuto meno “il vivere in esso”. La vita si è trasformata “nel vivere per essa”.
Da una parte, l’individuo si vede moralmente emancipato da tutto ciò che la sua vita poteva esigere da lui. Dall’altra, e simultaneamente, si trova sempre più disposto a essere sottomesso alle potenze che proteggono la suddetta vita. Eccoci di nuovo alla situazione descritta da Hobbes, nella quale l’individuo accetta di sottomettersi al potere assoluto del Leviatano in cambio della protezione che tale potere dovrebbe assicurargli contro la morte.
Non c’è morte, ci sono cause di morte (abbiamo scordato che siamo “esseri mortali”), e ognuna è suscettibile di essere combattuta con le unghie e coi denti. In questo ci troviamo quindi sempre più dipendenti dal “sistema sanitario”, come il drogato dipende dalla droga. E perciò l’organizzazione generale, in quanto dispensatrice del detto sistema, ci tiene in pugno. La nostra dipendenza è tale che ci sono persone che, spaventate di piombare in una “decrepitezza medicalmente prolungata”, chiedono l’eutanasia, chiamando questo, il morire con dignità.
Oggi disponiamo di mezzi straordinari per affrontare le malattie, ma come rovescio della medaglia, abbiamo disimparato a stare di fronte alle calamità, al dolore, alla sofferenza, e alla morte: ci paralizziamo, quando sembrano mancare i mezzi con i quali ordinariamente sappiamo respingerle. Così, se l’esistenza si riduce alle funzioni biologiche, la morte è quasi sempre un “fallimento del sistema sanitario”, che non ha saputo prolungare la vita. Un esempio di questo è che quando parliamo dei nostri ospedali in questi tempi non parliamo quasi mai di risultati ma di mezzi disponibili, ed in realtà tutte le misure di confinamento sono state decise per evitare la congestione delle terapie intensive.
Molte volte abbiamo sentito in questi tempi il nostro Presidente del Consiglio Conte, ma così pare anche il Presidente della Repubblica francese, dichiarare :
“Il Governo mobiliterà tutti i mezzi finanziari necessari per dare assistenza, per prendersi a proprio carico i malati, per salvare delle vite, costi quel che costi”.
Ma è davvero la lotta contro la morte per salvare vite umane la preoccupazione dei governi? Se così fosse, non si spiegherebbero molti “provvedimenti” che in realtà risultano essere dei “paradossi eclatanti”: in piena pandemia inizia in Spagna l’iter parlamentare sull’eutanasia; essa viene estesa ai bambini in Olanda; viene liberalizzato l’aborto chimico fuori da ogni controllo sanitario con la RU486, o pillola dei 5 giorni dopo, in Italia; viene aumentato di altre 2 settimane il limite legale per effettuare l’aborto in Francia.
Nell’epidemia del coronavirus, nella formula “salvare vite umane”, diventata parola d’ordine, si rivela l’ambiguità dellaparola “vita” (passata da essere definita “come unità di anima e corpo” a “insieme di funzioni essenziali”), una ambiguità moltiplicata da quella della parola “salvare”. Che lo si voglia o no, dice l’autore, questa formula non risuonerebbe nello stesso modo senza una reminiscenza del Salvatore e della salvezza delle anime. Tuttavia, le vite che bisogna cercare di salvare, costi quel che costi, si trovano tagliate fuori da ogni prospettiva religiosa. La dimostrazione di questo concetto è che sono stati vietati funerali e cerimonie religiose, considerati non essenziali.
Di fatto, possiamo certo affermare che per i nostri governi, l’obiettivo di garantire la salute, sotteso alla lotta per salvare vite umane, costituisce il fondamento della legittimità del loro potere.
La salute rappresenta infatti, dice Rey, “il Jolly”. Infatti, in nome della “salute” tutto è permesso. L’argomento “salute” è diventato così determinante da giustificare la preservazione e la legittimazione del potere politico. La pandemia ha costretto i dirigenti europei a capovolgere i loro slogan, dalla “permanente” mobilità al confinamento. Sui biglietti dell’euro non figurano che porte e ponti, ma la necessità infrange la legge. Sacrificando temporaneamente l’attività economica al contenimento dell’epidemia, i governi avrebbero attentato al contratto sociale implicito che permette all’economia di funzionare. Detto in altri termini, secondo una contraddizione interna imprevista dal sistema, è il bene superiore dell’economia che ha richiesto l’arresto dell’economia.
A soffrire sono in realtà le famiglie reali, concrete, gli uomini che vivono del proprio lavoro. Per l’economia mondiale, la crisi sanitaria costituisce un fastidioso incidente, ma anche un grande momento da cogliere, basti pensare alle opportunità legate alla “digitalizzazione” .
Il filosofo francese Wolff augura per dopodomani (il che ci lascia fortunatamente un po’ di tempo, dice Rey), ”sistemi di salute e protezioni sociali planetari alimentati da assicurazioni mutualistiche mondiali“ (Liberation 21 aprile 2020).
Nota l’autore, questa sarebbe “la via umanista”, “l’unica via realista” alla quale non ci sarebbe “alternativa”. Dio ci scampi da un simile incubo.
La modernità è stata descritta come un passaggio dall’eteronomia all’autonomia, un’emancipazione degli uomini di fronte a tutte le istanze che avevano un autorità sulle loro azioni (religione, natura, tradizione). Una libertà piena e intera reclamava tutto questo. A distanza di tempo, è lecito domandarsi se il rifiuto di ogni trascendenza (del quale Hans Jonas ha detto che è forse stato «l’errore più colossale della storia») abbia permesso che la promessa di libertà sia stata compiuta e non abbia invece portato con sé potenti germi di schiavitù.
“L’alternativa è molto semplice: o dipende da Ciò che fa la realtà, cioè da Dio, o dipende dalla casualità del moto della realtà, cioè dal potere. La dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini. La mancanza terribile, l’errore terribile della civiltà occidentale è di aver dimenticato e rinnegato questo. Così, in nome della propria autonomia, l’uomo occidentale è diventato schiavo di ogni potere. E tutto lo sviluppo scaltro degli strumenti della civiltà aumenta questa schiavitù. La soluzione è una battaglia per salvare: non la battaglia per fermare la scaltrezza della civiltà, ma la battaglia per riscoprire, per testimoniare, la dipendenza dell’uomo da Dio. Quello che è stato in tutti i tempi il vero significato della lotta umana, vale a dire la lotta tra l’affermarsi dell’umano e la strumentalizzazione dell’umano da parte del potere, adesso è giunto all’estremo. “ (quiCristo tutto ciò che abbiamo Luigi Giussani 01.02.2002 Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Comunione e Liberazione. New York, 8 marzo 1986. )
Le bandiere degli insorti polacchi nel XIX secolo che lottavano contro gli aggressori portavano scritte queste parole: “Per la nostra e vostra libertà”. “Non basta avere di che vivere per poter essere se stessi. Per poter essere qualcuno nel quale si rivelano la dignità e la libertà, bisogna avere di che morire. Avendo di che morire, l’uomo sa per che cosa egli vive. È solo la Trascendenza a donare se stessa all’uomo. Essa vuole essere suo Futuro. Chiamandolo a se stessa, gli traccia la strada verso la libertà da tutto ciò che passa. Vietandogli invece di inginocchiarsi davanti ai “vitelli d’oro”. (STANISLAW-GRYGIEL qui)
Per non rimanere paralizzati dalla morte, dal dolore che sicuramente molti di noi hanno sperimentato in questa pandemia c’è un’unica possibilità, affidarla alle braccia di Cristo.