Le larghe maglie di (alcuni) giudici danno il via libera all’accompagnamento a morire senza limiti. L’accompagnamento “nel” morire non viene considerato, nonostante quanto stabilito dalla Corte Costituzionale. Eppure è una strada, questa, davvero rispettosa della dignità della persona.
La recente richiesta di archiviazione, avanzata dalla Procura della Repubblica di Milano, dell’accusa di aiuto al suicidio nei confronti di Marco Cappato, autodenunciatosi dopo aver accompagnato in Svizzera due pazienti italiani, affetti da malattie irreversibili, ma in condizioni cliniche diverse da quelle cui ha fatto riferimento la Corte Costituzionale, nella sentenza 242 del 2019, a ricevere un farmaco che togliesse loro la vita, ripropone la necessità di una riflessione sul tema del cosiddetto “fine vita”, una categoria concettuale dai contorni sempre meno definiti.
In Italia, nel 2010, è stata promulgata la legge 38 che ha promosso il diritto a ricevere cure appropriate nelle condizioni di sofferenza dovute a malattie croniche evolutive ed irreversibili, attraverso l’erogazione da parte del SSN delle Cure palliative e della Terapia del dolore, diventati poi, nel 2017, Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). La portata di questa legge, che ha recepito un’esperienza già consolidata all’estero ma anche nel nostro Paese, sarebbe straordinaria, se venisse applicata e promossa integralmente e su tutto il territorio, attraverso la diffusione degli Hospice, delle Unità di Cure palliative domiciliari e della diffusione dell’approccio palliativo anche negli Ospedali, nelle RSA ed in ogni luogo di cura in cui si trovino i pazienti affetti da qualunque condizione patologica che li proietti, in un tempo breve o più lungo, verso la fine della vita, ma con la possibilità di vivere con la migliore qualità possibile, da protagonisti, senza accanimenti clinici, ma anche prevenendo la tentazione di andarsene prima. Oggi è sempre possibile controllare il dolore, attraverso terapie farmacologiche e procedure interventistiche mininvasive, ma anche altri sintomi disturbanti la qualità della vita delle persone malate, e questo a casa o, in alternativa, negli Hospice, luoghi di cura questi dove, dall’architettura all’organizzazione, si cerca di riprodurre un ambiente familiare associato ad un’assistenza professionale qualificata e continuativa, senza contare l’apporto del volontariato e, in genere, del terzo settore. Il dolore, come ha insegnato Cicley Saunders, la fondatrice del movimento delle Cure palliative e del primo Hospice (Londra 1967) è sempre comunque un “dolore totale”, cioè non solo fisico, ma anche psichico, sociale, spirituale e necessita di una cura altrettanto “totale”, cioè multidisciplinare e rivolta a tutte le dimensioni dell’uomo, non ultime quelle interiori, chiamate ad una prova tanto più impegnativa quanto più, nel decorso della malattia, si attraversano disabilità, limitazioni, fino all’avvicinarsi del tempo finale. E’ una vera rivoluzione della medicina, quella di dare dignità di cura, scientificamente fondata, ma altrettanto umanamente coinvolgente, a quel periodo di vita quando una malattia è giudicata inguaribile, ma nel quale nessuna persona può essere considerata incurabile. “Tu sei importante perché sei tu, e sei importante fino all’ultimo momento della tua vita”, sono le parole della Saunders, per esprimere la convinzione che la dignità di persona non si perde mai, anche quando diminuiscono le capacità di fare.
Un recente emendamento alla legge 38, frutto di una sollecitazione delle associazioni cattoliche unite dal network “Sui tetti”, introdotto nella precedente legge di bilancio, ha posto l’obiettivo di raggiungere, entro il 2028, la copertura del 90% del fabbisogno di cure palliative nel territorio nazionale; inoltre ha affidato ad Agenas uno stretto monitoraggio semestrale sulle Regioni affinché si rendano operative verso questo obiettivo.
Tutto questo per rispondere alle vere esigenze delle persone e delle famiglie che vivono l’esperienza delle malattie inguaribili e dell’evoluzione verso la fase finale della vita; esigenze che, dall’esperienza sul campo di chi da tempo lavora nelle Cure palliative, sono di ricevere buone cure, accompagnamento costante, luoghi di cura dove essere accolti nei momenti di difficoltà, sostegno sociale ed economico, soprattutto nei confronti dei caregiver, spesso costretti a lasciare il lavoro e a sostenere spese ulteriori, e anche supporto psicologico e spirituale. Viceversa sono assolutamente rare, se non proprio inesistenti, nell’esperienza palliativa, le domande di suicidio o di eutanasia. E questo stride con la propaganda dei casi “accompagnati”, in tutt’altro modo e con tutt’altra finalità, cioè a ricevere un farmaco che metta fine alla vita, da organizzazioni che si pongono esclusivamente tale finalità, ma che ricevono un clamore mediatico che oscura il grido di aiuto della stragrande maggioranza di persone che chiedono invece di essere aiutate a continuare a vivere dignitosamente fino alla fine. Per di più, grazie alla compiacenza di alcuni giudici, le “maglie” fissate dalla sentenza 242 della Corte Costituzionale, che non hanno fissato un diritto al suicidio, ma di fatto lo hanno consentito a certe condizioni, e in particolare la dipendenza dei pazienti da supporti vitali, si stanno pericolosamente allargando, come ad esempio avvenuto nella richiesta di archiviazione citata all’inizio, contemplando come supporti vitali qualunque terapia che permetta di restare in vita, a partire dall’alimentazione e dall’idratazione, come, purtroppo, fu scritto nella legge 219 del 2017 (art. 1, c. 5), fonte di molta confusione.
In conclusione, un sostegno, culturale e istituzionale, alla promozione delle Cure palliative nel nostro Paese, rappresenta la prima e fondamentale azione per contrastare la deriva eutanasica in atto. Ma solo una contemporanea rivalutazione antropologica del valore dell’uomo, indipendentemente dalle sue condizioni di vita, che certo vanno sostenute in ogni modo, e una riapertura a quella trascendenza che ha segnato la storia della nostra civiltà e che può ridare senso e significato a ciò che solo razionalmente può non essere compreso, potranno invertire una rotta che sembra segnata verso quella “cultura dello scarto”, cui fa spesso riferimento Papa Francesco.
Marcello Ricciuti
Direttore UOC Hospice e Cure palliative Azienda Ospedaliera S. Carlo Potenza
Comitato nazionale di bioetica