Autore: Giuliana Ruggieri; Curatore: don Gabriele Mangiarotti
Fonte: CulturaCattolica.it
IERI: «La professione del medico segue da millenni un paradigma che vieta di procurare la morte del paziente. Se viene capovolto, occorre che ne discuta l’intera società, perché le conseguenze non si limitano all’agire del medico… Da sempre i medici hanno visto nella morte un nemico e nella malattia un’anomalia da sanare…»
OGGI: «La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio … va sempre valutata caso per caso e comporta … la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare»
“La professione del medico segue da millenni un paradigma che vieta di procurare la morte del paziente. Se viene capovolto, occorre che ne discuta l’intera società, perché le conseguenze non si limitano all’agire del medico, del quale, comunque, non può essere limitata la libertà di coscienza. Da sempre i medici hanno visto nella morte un nemico e nella malattia un’anomalia da sanare: mai si è pensato che la morte potesse diventare un alleato, che potesse risolvere le sofferenze della persona. Se fosse approvata la legalizzazione all’aiuto al suicidio, verrebbe capovolto questo paradigma. Se ne deve discutere in profondità, perché le ripercussioni non riguardano solo i medici e le altre professioni sanitarie: il meccanismo che porta ad accompagnare una persona verso il suicidio coinvolge l’intera società”.
“Consideriamo il dialogo sul suicidio assistito utile e necessario. Crediamo che debba essere scevro da pregiudiziali ideologiche o politiche, e animato solo da sensibilità intellettuale e disponibilità a comprendere sino in fondo le ragioni di determinate scelte. Ma anche dalla volontà di valutare le possibili conseguenze del cambiamento del paradigma – quello che vede la malattia come il male e la morte come il nemico da sconfiggere – che sinora ha caratterizzato l’esercizio della professione medica”.
“Le condotte agevolative che spianino la strada a scelte suicide non possono ricadere solo sul medico… Al medico deve anzi essere attribuito il ruolo di colui che tutela i soggetti più fragili. Il divieto di favorire o procurare la morte ha sempre protetto la professione medica e i cittadini, come insegna la storia. La Fnomceo ribadisce che i principi del nostro Codice sono esaustivi dell’esercizio della professione e che il paradigma che l’ha ispirato continua a essere valido. Per il rispetto della dignità della persona che soffre, grazie alla legge 38/2010 abbiamo strumenti adeguati che sono le cure palliative, la terapia del dolore fino alla sedazione profonda. Occorre applicare meglio queste terapie, che possono essere lo strumento migliore per evitare lesioni della dignità delle persone e prevenire richieste di suicidio”.
“In ogni caso il Codice di Deontologia Medica è ispirato ai principi contenuti nella Carta Costituzionale e sarà sempre coerente con i valori da essa richiamati”, ha ribadito il rappresentante della Fnomceo.”
Sono passati poco più di sei mesi e siamo purtroppo arrivati al “cambiamento del paradigma” che caratterizza la professione del medico, custodita appunto dall’articolo 17 del codice Deontologico e dalla millenaria storia seguita al Giuramento di Ippocrate.
“Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte.” (art.17: Codice di Deontologia medica).
Non sarà più così dal 06 Feb.2020:
“La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”.
È questo, infatti, il testo degli indirizzi applicativi all’articolo 17 del Codice di Deontologia medica (ATTI FINALIZZATI A PROVOCARE LA MORTE), approvati all’unanimità ieri a Roma dal Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo).
Il Prof. Massimo Gandolfini commentando la decisione: “Come medico con oltre 40 anni di professione alle spalle, vivo oggi un giorno tristissimo: si rinnegano migliaia di anni di principi deontologici per adeguarsi ad una cultura mortifera che colpirà i più fragili, che, mortificati dall’abbandono terapeutico e dalle esigenze di risparmio, richiederanno di farla finita. D’altra parte la sentenza della Consulta consente l’aiuto al suicidio anche per ‘sofferenze psicologiche intollerabili’. Dovere dei medici era quello di non piegare la testa ai diktat di una società dello scarto, votata ad un auto determinazione che si traduce nell’eliminazione del più debole”
E’ davvero una svolta radicale per la nostra professione che ha da sempre come scopo eliminare la malattia, non il paziente.
Inoltre l’intervento dal titolo “Conseguenze e prospettive dopo la sentenza della Corte Costituzionale 242 del 2019”, del Dr. Alfredo Mantovano, vice Presidente del Centro Studi Rosario Livatino al recente convegno del 30 gennaio 2020 Medicina e sanità ai confini della vita: il ruolo del medico, organizzato da Amci-Associazione medici cattolici, col patrocinio della Federazione degli Ordini dei medici, presenti il Dott. Filippo Anelli (Presidente Fnomceo) e il Prof. Pierantonio Muzzetto, dimostra che non era assolutamente necessario cambiare l’articolo 17 del codice deontologico:
“La sentenza 242 non solo non subordina la scelta del medico di non agevolare il suicidio ad alcuna formale dichiarazione – sì che egli, a differenza di quanto accade nella L. 194/78, non riceve l’altrettanto formale qualifica di “obiettore” -, ma gli riconosce la valutazione caso per caso, avendo come faro esclusivo la propria “coscienza”. La “coscienza del singolo medico”, a sua volta, non è anarchica: i suoi parametri di riferimento costituiscono il codice deontologico della professione che esercita, nel caso specifico l’art. 17. Perché allora modificare tale codice quando a esso la sentenza rinvia in modo così diretto, poiché individua la fonte normativa nella coscienza del medico, a sua volta appartenente a un Ordine che garantisce l’osservanza di regole professionali?
…La sentenza 242 esige una modifica del codice deontologico medico? Vi è un primo livello di riflessione, che già potrebbe chiudere la partita: sia la sentenza che la legge parlano di “coscienza del singolo medico” e di “deontologia professionale”. Se il riferimento è con tutta evidenza all’attuale codice deontologico, incluso il suo art. 17, perché cambiarlo? La Consulta non lo auspica nemmeno per incidens, sì che l’eventuale timore di non dare attuazione all’intero dispositivo della sentenza 242 in virtù di un altrettanto eventuale massiccio rifiuto dei medici italiani di dare seguito a richieste di aiuto al suicidio, andrebbe oltre il dictum della Corte.
Si potrebbe replicare che la stessa Corte inserisce ogni trattamento di fine vita all’interno del Servizio sanitario nazionale, parlando di “verifica in ambito medico” della richiesta di aiuto al suicidio. E qui ci si imbatte in una confusione che non spetta certamente al singolo medico, o al suo Ordine, risolvere, perché sta tutta nella sentenza 242 e nell’inserimento di essa nell’ordinamento.
Di più. Aggiungendo un comma virtuale all’art. 580 cod. pen., la sentenza ha costruito una condizione obiettiva di non punibilità: con la 242 la norma in questione contiene una previsione integrativa in base alla quale se taluno – obbligatoriamente un medico del SSN – agevola altri nell’intento suicidiario è esente dalla sanzione prevista dalla norma (che – lo ripeto – è rimasta legittima e vigente, salva la deroga indicata), purché la sua condotta rispetti le modalità e le condizioni ricordate al § 1. Poiché la sede unica di verifica della ricorrenza o meno di una condizione obiettiva di punibilità è il procedimento penale, il medico verrà iscritto nel registro degli indagati per il reato di aiuto al suicidio: il giudice verificherà quindi se ai fini dell’archiviazione o del proscioglimento sussistano le modalità e le condizioni indicate dalla Consulta. In questo quadro, che senso avrebbe affievolire il presidio del codice deontologico, e in particolare dell’art. 17, per un medico che ben può decidere di rifiutare l’aiuto all’altrui suicidio, oltre che per preminenti ragioni di principio, anche per non essere coinvolto in un procedimento penale” (https://www.centrostudilivatino.it/category/eutanasia/)
E’ bene avere chiaro che siamo ben oltre le DAT (Disposizione Anticipate di Trattamento) e molto oltre il Caso Cappato, un caso limite utilizzato ad arte per aprire la strada all’eliminazione dei malati, dei più fragili, dei più deboli.
“Qual è la strada che si è aperta? Anzi la diga aperta?
Non si tratta di pazienti terminali, gravi, ma per esempio, basta un “inganno” lessicale per cambiare radicalmente la realtà, cioè considerare dar da mangiare e bere come terapia, come trattamenti di sostegno vitali.
La sospensione di nutrizione e idratazione è la strada per uccidere i nostri pazienti accompagnandoli con la sedazione palliativa terminale, per evitare situazioni estremamente dolorose conseguenti alla sospensione di cibo e acqua.
Le condizioni, invece, poste dalla sentenza della Corte Costituzionale sono comuni a molti miei pazienti: per esempio, grave sofferenza psichica, in dialisi per insufficienza renale cronica. Queste condizioni sono sufficienti per chiedere il suicidio assistito.
Infatti la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale prevede come condizioni per il suicidio assistito: una persona che abbia formato il proposito suicidiario in modo autonomo e libero, in piena consapevolezza e capacità; sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; sia affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili.Tali malati curati con adeguata terapia antidepressiva, sostenuti da un rapporto con i propri medici e familiari, abbandonano il pensiero suicidiario e molte volte cambiano radicalmente l’approccio alla vita soprattutto quando approdano al trapianto renale.
La legge 219 e la sentenza della Corte Costituzionale ora pure il codice deontologico “modificato”… permettono questo.
Dopo la legge 219 (sospensione di nutrizione e idratazione quindi morte del paziente, eutanasia passiva di questo in realtà si tratta, anche senza DAT, come dimostra il caso del paziente Claudio De Manzano) la Corte Costituzionale ha messo a punto il secondo passaggio, dopo la sentenza che ne prelude un terzo definitivo, perché aspettare tanti giorni e tanta sofferenza da parte dei familiari?
FNOMCeO contraddicendo tra l’altro tutte le affermazioni ed i pronunciamenti pubblici fatti pochi mesi prima e il “se viene capovolto, occorre che ne discuta l’intera società”, favorisce questo cambio di paradigma totale della nostra professione, modificando il codice deontologico.
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