di Giorgia Brambilla dal blog di Savino Paciolla
Manco a farlo apposta, nel giorno in cui fanno festa streghe, zombie e vampiri, apprendiamo la notizia (qui) di una legge mostruosa, che prende le sembianze di un moderno Moloch, che permetterà l’eutanasia dei bambini disabili.
Già da un anno l’eutanasia in Canada è legale; ora la scelta di farla finita viene messa in mano ai genitori che possono decidere della vita del figlio (in fondo, è una loro proprietà, no?) disabile (parola che da sola può comprendere un pantone di sfumature infinite) che soffre terribilmente (e come si fa a “misurare” la sofferenza?).
Però queste sono le leggi del mercato: se sulla morte aumenta la domanda (così avrebbero dichiarato i pediatri canadesi), aumenta anche l’offerta. E poiché nel caso dei bambini non si può parlare ancora di “libera scelta”, quale può essere il criterio se non la disabilità?
In realtà, sull’eliminazione del figlio “imperfetto” si sta lavorando da parecchio tempo.
Già nel 1992, dal rapporto “Fare o omettere” dell’Associazione Pediatrica Olandese, risultò che un certo numero di pediatri considerava lecito porre fine alla vita di neonati in ragione della possibilità che la qualità della vita dopo un intervento intensivo potesse essere minacciata da anomalie.
Nel 2004, Eduard Verhagen, primario del reparto di pediatria dell’Ospedale Universitario di Groningen, elaborò un protocollo per regolamentare l’intervento per abbreviare la vita dei neonati in tre casi: 1. bambini che non hanno la possibilità di sopravvivere e che moriranno poco dopo la nascita; 2. bambini con una diagnosi negativa che sono dipendenti da una terapia intensiva (possono sopravvivere con una terapia intensiva, ma posseggono prospettive sfavorevoli riguardo la vita futura); 3. bambini con una prognosi disperata e che, secondo l’opinione dei genitori e dei medici, “soffrono in modo insopportabile”.
Ci concentriamo sul terzo punto. È questo il caso di neonati che non hanno bisogno di una terapia intensiva, ma che avranno, con forte probabilità, una qualità di vita ridotta, anche a seguito di numerose operazioni. Nell’articolo di Verhagen-Sauer (The Groningen Protocol. Euthanasia in Severely Ill Newborns, in “New England Journal of Medicine”, 352/2005, pp.959-962.) veniva citato uno studio effettuato su 22 casi di soppressione della vita di infanti di età inferiore ai sei mesi nei Paesi Bassi. In tutti i casi si trattava di neonati con spina bifida e i motivi della soppressione riguardavano la sofferenza e la mancanza di autosufficienza (totalità dei casi), la mancanza di comunicazione verbale e non verbale (18 casi), la dipendenza dall’ambito medico per ricoveri e interventi chirurgici frequenti (7 casi) e la previsione di una breve durata della vita (13 casi).
Sintetizzando di molto il problema etico, dovremmo chiederci: il medico che si trova a porre fine alla vita di un determinato neonato è nella circostanza di un “conflitto di doveri”, tale da poter invocare la “situazione di necessità”? Poiché, se non è così, ci troviamo di fronte al caso di chi per eliminare la sofferenza elimina il sofferente. Del resto l’espressione “soppressione caritatevole” del bambino nato con malformazioni ci era già nota dopo che nel 1938 Hitler ordinò a Karl Brandt di recarsi in Lipsia per esaminare la richiesta di una coppia di genitori di consentire l’uccisione del figlio malformato che poi divenne un vero e proprio programma per l’eliminazione dei bambini handicappati.
Non solo. Cosa significa “sofferenza insopportabile e senza prospettive”? Qui si sta prendendo una decisione irreversibile come quella di porre fine alla vita di un neonato, in virtù sia di una concezione soggettiva di vita umana accettabile, sia di un calcolo di costi psicologici e perfino economici. Ogni individuo umano, infatti, vive e percepisce la sofferenza, sia quella fisica, sia quella morale, in modo del tutto unico e personale. Così anche un medico sarà portato a giudicare la sofferenza in base a propri vissuti e ancor più lo farà un genitore che in quella situazione è in tutto e per tutto coinvolto.
Diciamocelo, siamo davanti a una vera e propria “handicap-fobia”: il motivo per porre termine alla vita di un neonato in queste condizioni non è la sofferenza insopportabile e senza prospettive del bambino, ma l’incapacità dei medici, dei genitori e della società di accettare l’handicap.
Scriveva Chesterton (Eugenetica e altri malanni, Cantagalli, Siena, 2008, pp.103-104.):
Anche se potessi condividere il disprezzo eugenico per i diritti umani, anche se potessi imbarcarmi allegramente nella campagna eugenica, io non comincerei col togliere di mezzo le persone deboli di mente. Ho conosciuto molte famiglie (..) e non ricordo di essermi imbattuto in mostruose sofferenze umane derivanti dalla presenza di questi individui insufficienti e negativi (..). [Essi] sono lungi dall’essere l’impedimento peggiore alla felicità domestica; non mi risulta che facciano un gran danno (..) e non solo sono considerati con umanità e affetto, ma possono essere adibiti a certe limitate attività umanamente utili.
Utili, appunto. Ricordiamo come si era espresso l’esponente più emblematico della bioetica utilitaristica, Peter Singer (qui) sull’eutanasia dei bambini disabili; secondo lui, la vita non ha valore di per sé, anzi, il suo valore va ponderato con altri “beni”, come ad esempio quelli economici, riferiti ad un concetto astratto di collettività. Quindi, per il bioeticista, se il disabile porta alla società più “costi” che “benefici”, visto che oltretutto non è nemmeno in grado di affermare da sé il suo valore, è “giusto” che si ponga fine alla sua vita.
Ritenere che la società sia compromessa dalla presenza dei disabili è segno di grave forma di discriminazione – quella dei forti e dei sani contro i deboli e i malati –, ed è anche fortemente diseducativo per le nuove generazioni. In primo luogo, la qualità di una società o di una civiltà si misura dal rispetto che essa manifesta verso i suoi membri più deboli. Una società tecnicamente perfetta, nella quale sono ammessi solo i membri pienamente produttivi, è permeata da una discriminazione non meno condannabile della discriminazione razziale. In secondo luogo, abbandonare i genitori facendo sì che essi si carichino da soli, socialmente ed economicamente, della situazione, per non gravare sulla società, non potrà che indurre le persone – come in parte sta già avvenendo – a volersi “liberare” di un tale “fardello”, acconsentendo alla soppressione “pietosa” del figlio, seminando nel pensiero comune una concezione materialistica che calcola il valore di una vita umana in base ai suoi costi.
Come non ricordare, allora, il monito sempre attuale di Giovanni Paolo II a riguardo (No alla legalizzazione dell’eutanasia neonatale, in “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, vol. XI/1, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1988, pp.888-890, nn.3-4):
Il grado di rispetto alla vita nascente in tutte le sue fasi di vita nel seno materno è la premessa di quel rispetto che deve proseguire nella fase neonatale anche e soprattutto verso gli immaturi gravi e i neonati malformi. È la logica di morte, insita nella legittimazione dell’aborto, che spinge oggi in qualche parte alcuni a chiedere la legalizzazione della eutanasia neonatale e ad avviarne la pratica a carico dei feti portatori di handicap e di quelli la cui esistenza neonatale, a causa della loro nascita prematura, risulta, anche se possibile, non priva di qualche difficoltà e di qualche rischio. Si avanza, da parte di alcuni, il presunto “diritto al figlio sano” e si colloca la così detta “qualità di vita” come criterio dirimente perché venga accettata la vita. Occorre riaffermare con chiarezza che ogni vita è sacra e che l’esistenza di una eventuale malformazione non può costituire motivo di condanna a morte, neppure quando siano i genitori stessi, presi dall’emotività e colpiti nelle attese, a chiedere l’eutanasia attraverso la sospensione delle cure e dell’alimentazione.
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